Marina Ravarotto ha il merito di aver portato a Cagliari, città di mare, i sapori della sua Barbagia, zona interna della Sardegna dalle tradizioni secolari, e di avere riproposto questi sapori in una chiave moderna e interessante, basandosi su ingredienti attentamente selezionati. Trentasette anni, allieva di Mario Tirotto (Resort Valle dell’Erica, che definisce il suo “mentore”), e con esperienze sia alla corte di Roberto Petza (S’Apposentu di Casa Puddu, una stella Michelin) sia di Stefano Deidda (Il Corsaro, una stella Michelin), questa chef isolana si è poi messa in proprio e oggi guida la brigata del ChiaroScuro. Il ristorante ha pochi mesi di vita, ha aperto i battenti nel dicembre 2017 e si trova lungo il Corso Vittorio Emanuele, una delle vie cagliaritane più affollate. La Ravarotto entra così a far parte della risicatissima squadra al femminile della cucina sarda, i cui ranghi speriamo di vedere sempre più affollati.
Il locale, Chiaroscuro, trae il nome dal titolo dell’omonimo libro di Grazia Deledda (nuorese, premio Nobel per la letteratura nel 1926) e la Deledda è presente, con frasi e la sagoma in trasparenza, in tutto il menu. Chiaroscuro è un ristorante spartano, stretto e lungo come tutti i locali che si affacciano su Corso Vittorio Emanuele. Pareti sulle tonalità del bianco interrotte da cestini, attrezzi agricoli, bilance in rame e pregiate stoffe tradizionali. Ambiente silenzioso, con tavoli ben distanziati, diviso in due sale separate da pochi gradini. In cucina (non a vista), Marina Ravarotto lavora in brigata con tre colleghi. L’idea di diventare una cuoca, racconta la stessa Marina nella prefazione al menu, nasce da giovane, vedendo cucinare la mamma e le nonne che le hanno trasmesso la passione della cucina. Poi gli anni della formazione, fatta prevalentemente in Sardegna.
Il benvenuto dello chef sono delle pardulas ripiene di purpuzza, accompagnate da salsa di pomodoro. Stuzzichino gustoso, che avrebbe meritato un impiattamento più curato. Il menu del ristorante ChiaroScuro è costruito con l’idea di valorizzare i prodotti della tradizione della Barbagia ed è da premiare la decisione – in una città di mare – di non avere ceduto alla logica del ‘piatto di pesce in carta’. Purtroppo, non è previsto un menu degustazione, come accade in tutti i più importanti ristoranti della Sardegna, dove gli chef si “rappresentano” in un menù che li racconta. Da una giovane chef che vuole presentare a Cagliari il proprio percorso, trasmettendo le nozioni essenziali della tradizione culinaria barbaricina interpretate in chiave personale, ci saremmo aspettati un percorso degustazione e ci auguriamo che alla prossima visita ci sia.
In carta, gli antipasti vanno da 8 a 16 euro: tra quelli barbaricini la fresca insalata di pomodori della tipologia “camone” accompagnati con il formaggio “frue” (8 euro), le animelle fritte (10 euro), la terrina di cinghiale (11 euro). Noi abbiamo optato per quello più completo, La Tradizione, abbondantemente sufficiente per due persone: una bella una selezione di salumi di alta qualità del salumificio Chessa di Orune e di formaggi dell’azienda Demurtas di Castiadas, serviti su un tagliere di sughero. Sempre nell’antipasto La Tradizione, buone le lumache al pomodoro appena piccanti, il formaggio frue con il gattò di mandorle (un abbinamento semplice ma stuzzicante), la tradizionale “purpuzza” (carne di maiale tagliata al coltello, marinata e cotta nel vino), la lingua (ben cotta e morbida), servita con una azzeccata e freschissima composta di pere, zenzero e pepe rosa.
Tra gli antipasti, anche qualche proposta creativa: l’uovo in verde. Un uovo servito su crema di topinambur, accompagnato da una spugna al prezzemolo e pane carasau al carbone vegetale. Un impiattamento molto ben eseguito, un piatto dal design moderno e dal sapore equilibrato. Unica pecca, le briciole di pane carasau avevano preso umidità e si erano ammorbidite, perdendo croccantezza.
Tra i primi piatti (8-15 euro), dominano i gusti barbaricini. La pasta fresca è fatta a mano giornalmente, come il pane e i grissini. Si va dal classico “pane frattau” (9 euro) ai maccarrones de busa al ragu di pecora (13 euro) fino al famoso “filindeu” (15 euro). Il “filindeu” è una pasta tipica nuorese, molto rara, fatta con farina di semola, acqua e sale, unica per la modalità di preparazione. E’ composta da sottilissimi fili di pasta, disposti a forma di rete. La ricetta è custodita da tre donne di Nuoro e viene tramandata da secoli. Il nome “filindeu” significa “fili di Dio”: questa pasta viene offerta in un brodo di pecora ai fedeli che ogni anno, nel mese di ottobre, percorrono la via del pellegrinaggio dalla città di Nuoro al santuario di San Francesco a Lula. Marina Ravarotto, molto legata a questa tradizione, ha voluto inserire questa ricetta nel suo menu, eseguendo bene un piatto tradizionale. I filindeu arrivano direttamente da Nuoro ma, rispetto alla ricetta tradizionale, il brodo di pecora è stato sgrassato perché il suo gusto forte avrebbe potuto non incontrare il favore del cliente e il gusto complessivo del piatto (per chi conosce e ama proprio l’intensità di questo piatto), è risultato troppo delicato. Ottimo il pane frattau, servito ben caldo, con la giusta quantità di sugo di pomodoro e di pecorino e un uovo in camicia, cotto alla perfezione, con il tuorlo morbidissimo e l’albume al giusto punto di coagulazione. Uno dei migliori assaggiati in Sardegna.
Grande attenzione al cosiddetto “quinto quarto” in tutto il menu, dall’antipasto ai secondi piatti (tra gli 11 e i 15 euro). Il ristorante ChiaroScuro offre la “tratalia” (interiora d’agnello avvolte nell’omento) accompagnate dalla cipolla brasata; il maialetto in umido e il maialetto arrosto (su prenotazione); la guancia di manzo con crema di ceci. E due piatti che partono dalla tradizione ma vengono reinterpretati: la nube nel capocollo e l’agnello quattro per quattro. Noi abbiamo scelto proprio questi piatti, per capire l’estro della chef. La nube nel capocollo è un capocollo di maiale, accompagnato da patate arrosto, servito coperto per qualche minuto da una campana nella quale si cela una leggera ma persistente affumicatura. La cottura a 80 gradi per nove ore ha sciolto benissimo il collagene, lasciando la carne perfettamente morbida e succosa, con la giusta quantità di grasso. Buone le patate arrosto, che hanno però da un lato banalizzato il piatto, dall’altro lasciato il desiderio di qualcosa di fresco e di vegetale ad accompagnare il capocollo.
L’agnello “quattro per quattro” è un agnello preparato in quattro cotture diverse (lessato e sgrassato, brasato e rosticciato) e poi composto in una terrina. Ottimo il sapore della carne, tenerissima e servita con il suo fondo, che ha mantenuto una componente grassa importante e che avrebbe avuto un assoluto bisogno di una forte acidità, per bilanciare il gusto. La componente grassa è stata ulteriormente rinforzata dalla untuosità delle patate al forno. Il piatto, ci è stato raccontato, era stato inizialmente concepito con un accompagnamento fatto da una salsa allo yogurt e senape, un abbinamento virtualmente perfetto e rinfrescante. La ricetta è stata modificata, abbiamo appreso, dopo le lamentele dei clienti che non hanno gradito le acidità. Un grande peccato, perché avremmo voluto gustare il piatto per come la chef l’aveva ideato, ovvero ben bilanciato e motivato nei suoi ingredienti.
I dolci (tra i 5 e i 9 euro) sono di impronta tradizionale: la seadas, il tortino con il cuore caldo al cioccolato (ormai diventato un dessert per tutte le stagioni e per tutte le regioni, come il tiramisù), la sempre fresca zuppetta di fragole con il sorbetto al limone, una stuzzicante millefoglie di pane carasau con zabaione al mirto (9 euro). Anche i dolci sono ideati e preparati dalla chef. Noi abbiamo provato il cremoso al caffè, montato al mascarpone, accompagnato da frutti bosco, spugna di amaretti e alchechengi. Un dolce piacevole, non troppo dolce, con una bassa acidità e una leggera prevalenza di elementi grassi dovuti al cremoso. Un dolce piacevole che si potrebbe ulteriormente equilibrare, con una attenzione al ruolo principale del caffè, poco percepibile. Al termine, piccola pasticceria con un gustoso torrone di Tonara, una gelatina di ananas e lime, mini gueffus, bianchetti (meringhe) e biscotti ungheresi.
Nella carta delle bevande, sono presenti vini esclusivamente sardi e qualche birra sarda artigianale. Sette i vini bianchi, circa trenta le referenze di vini rossi e tre i vini passiti. I ricarichi sui prezzi sono onesti. E da ChiaroScuro si può bere molto bene con 22 euro. In sala, molta cortesia e attenzione, con una sommelier-maitre che si è dimostrata precisa e puntuale, bene informata sui piatti e in grado di servire la clientela più esigente.
(visitato nell’aprile del 2018)
ChiaroScuro, di Marina Ravarotto. Corso Vittorio Emanuele, 380 – Cagliari. Tel. 347.9630924
2 commenti
Che posto meraviglioso e i piatti mi fanno venire una fame
Grazie
Un bacione
Tutta la Sardegna è bella e per fortuna anche i ristoranti stanno crescendo!